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domenica 24 agosto 2014

Arte botanica


A quanto pare, l'arte di disegnare e dipingere specie vegetali è sempre in auge in Inghilterra. L'amore degli inglesi per i giardini è cosa ben nota. I Giardini Botanici Reali di Kew, a Londra (già notevoli per l'estensione e il numero e di specie "esposte"), oltre a funzionare come un vero e proprio centro di ricerca, non disdegnano le contaminazioni artistiche. La Shirley Sherwood Gallery è interamente dedicata all'arte botanica. Inoltre, festival temporanei mettono in relazione la botanica con l'arte moderna o altre forme di espressione artistica (concerti, rappresentazioni teatrali, performance...).
Testimone d'eccezione di questi giardini è il noto divulgatore David Attenborough, anche grazie alla realizzazione di un eccellente documentario 3D in collaborazione con la BBC: Kingdom of Plants.
Il documentario ha avuto successo pure sul canale televisivo franco-tedesco "Arte" (in traduzione).
A quando anche in Italia? 

venerdì 15 agosto 2014

Il mistero delle arance rosse



 Tutti conoscono le arance rosse. Ma perché rosse

 A onor del vero, e come piccola premessa, ogni qualvolta ci si pone la domanda “perché” in biologia, si rischia di sollevare polveroni filosofici da far starnutire un Aristotele. In effetti, la risposta è sempre duplice, dipendente dalla prospettiva. Se ci poniamo dal punto di vista della Storia, allora è la prospettiva evoluzionista che ci interessa. La domanda allora diventa: cosa ha consentito che il carattere “colore rosso” venisse conservato? Detto in altri termini, qual è il “vantaggio” di essere rossa, per un’arancia? 

 Sappiamo che il colore rosso è dovuto ad una classe di molecole, gli antociani (assai diffusi in natura). Tuttavia, produrre molecole (qualunque esse siano) non è “gratis”. Si tratta di un processo che “costa” (energia) e quindi la pianta deve trarne un qualche vantaggio*. 

 Ad esempio,  in natura i colori (spesso, non sempre) hanno un significato per le altre specie con cui la pianta interagisce. E il rosso è un colore vistoso, soprattutto rispetto al diffusissimo verde, suo complementare, il che spiega (almeno in parte) perché frutti e bacche presentano un colore rossastro, così da poter essere ben visti da chi li utilizzerà (e in questo modo diffonderne i semi).
 Nel caso delle arance rosse, però, siamo probabilmente sulla strada sbagliata. In fondo il frutto dell’arancio è già vistoso di per sé e il colore rosso riguarda soprattutto (ma non unicamente) la polpa, la parte interna al frutto. A ben guardare, dovremmo aggiungere il fatto che, siccome stiamo parlando di una specie coltivata, non entra in gioco solo la selezione naturale ma anche quella cosiddetta “artificiale”, la selezione esercitata dall'uomo. 

 Capita spesso che le specie coltivate sviluppino per mutazione un carattere che sarebbe inutile o perfino dannoso in “natura” (e quindi, “naturalmente” destinato ad estinguersi assieme alle piante portatrici del carattere), ma che rappresenta un vantaggio per noi umani. Quindi, proprio quelle piante che sarebbero “naturalmente” sfortunate e destinate all'estinzione vengono salvaguardate con cura e coltivate dagli uomini a scapito delle altre. A lungo andare, la specie può diventare così “dipendente” dall'uomo da essere pressoché incapace di sopravvivere in “natura”, lasciata a sé stessa (è il caso del mais, ad esempio). 

 Tornando al mistero delle arance rosse, il primo passo per risolvere un mistero consiste nel cercare di limitare il fenomeno che si vuole osservare. In pratica, tutte le arance sono rosse? Se no, dove si trovano? E cos'hanno di speciale? Una “spedizione” al supermercato ci informerà che le “arance rosse” provengono (quasi) unicamente dalla Sicilia. Infatti, le varietà commercializzate sotto il “segno IGP” sono tre: Tarocco, Moro e Sanguinello.

 Queste arance vengono prodotte nella zona intorno all'Etna. E qui ci avviciniamo alla soluzione del mistero. In effetti, l’areale di coltivazione è soggetto a forti escursioni termiche notte/giorno. Più l’escursione termica è forte, più queste arance sono pigmentate (producono antociani). Perché? In primo luogo, è capitato che alcune varietà di arance “normali” sviluppassero una mutazione (l'origine di queste arance è abbastanza dibattuta, così come la relazione tra le diverse varietà. Si parla di una mutazione avvenuta tra Otto e Novecento nel caso della varietà Tarocco, ad esempio). 

 Ora, questa mutazione ha procurato un vantaggio alle piante mutate. E qui viene la parte interessante. In effetti, per avere arance veramente rosse, bisogna che le piante siano soggette a forte escursione termica. Questo è proprio quello che accade (tra il giorno e la notte), alle pendici dell'Etna. Questo spiega perché la coltivazione di queste arance è localizzata proprio in quella zona. 

 Ricapitolando, se volete produrre arance rosse, vi servono:

  • le varietà mutate (potenzialmente in grado di produrre arance rosse) – quella che possiamo chiamare la genetica
  • un clima adatto a produrre effettivamente il colore rosso (forti escursioni termiche notte giorno) – quello che chiameremo l’ambiente 


 Aprendo un libro di genetica si scopre in effetti che il fenotipo (quello che “si vede”, il carattere effettivamente espresso) è dato dalla “formula”: fenotipo = genetica x ambiente.
In effetti, gli antociani svolgono un ruolo protettivo (si tratta, tra l’altro, di sostanze antiossidanti) anche nelle piante. L’arancio che può produrli (mutato) lo fa per un motivo preciso: proteggersi contro lo “stress” provocato dalla forte escursione termica!!

 Gli antociani hanno un ruolo protettivo anche per noi esseri umani (motivo per cui è consigliato mangiare frutta colorata, specie se di colore rossastro – arance rosse, mirtilli, ecc. sono ricchi di antociani -). Ad esempio, topi mutati che hanno tendenza a sviluppare tumori, vivono più a lungo se nutriti con antociani (in questo studio, i topi venivano nutriti con un pomodoro in cui i ricercatori erano riusciti a far produrre antociani, grazie al trasferimento genico). Per inciso, ritroviamo gli antociani anche come additivi alimentari, sotto la sigla E163.

 Ma ritorniamo alle arance rosse. Il mistero è quindi risolto? Solo in parte. Sappiamo che c’è stata una mutazione, sappiamo in quale ambiente vengono prodotti gli antociani, sappiamo anche il perché vengono prodotti… ma non sappiamo niente della mutazione!

 Ebbene, il mistero è stato risolto da questo articolo.

 Quello che è accaduto è che un retrotrasposone ha provocato la mutazione “arance rosse”. Un retrotrasposone possiamo definirlo come un antico virus “parassita” del genoma. Ce ne sono tanti e di tanti tipi, anche nel nostro, di genoma. Ogni tanto si spostano – in gergo si dice che “saltano” – e producono una copia di se stessi inserendosi in un'altra parte del genoma.
 Nel caso delle arance rosse, il nostro retrotrasposone si è inserito in un punto tale per cui l’espressione di un gene particolare (chiamato Ruby), gene che controlla la produzione di antociani, viene attivata nel frutto quando fa freddo (un po’ complicato, vero?).

 In breve, quando bevete un succo di arancia rossa, pensate a quanti (e complicati) eventi si son dovuti verificare per poter arrivare fin lì, nel vostro bicchiere!


 *Piccola parentesi di biologia evoluzionistica.
Purtroppo, quando si traducono le questioni dell’evoluzione in linguaggio corrente, c’è sempre il rischio di lasciar trasparire una sorta di finalità o volontà intrinseca (che invece non è presente). Quindi, mi esprimo meglio: quel “deve trarne qualche vantaggio” significa più precisamente “se gli individui di quella popolazione hanno mantenuto quel tratto caratteristico, allora vuol dire che il tratto deve essere associato con un vantaggio adattativo (o, almeno, essere neutro. Anche se è difficile che un processo che costa energia possa essere completamente “neutrale” dal punto di vista della selezione naturale). Naturalmente, un singolo individuo può sviluppare un tratto che è svantaggioso. In questo caso, però, è molto probabile che la pianta ne trarrà uno svantaggio, quindi probabilmente la pianta non trasmetterà il tratto alla discendenza e/o le piante discendenti saranno svantaggiate a loro volta. Quindi il tratto svantaggioso avrà tendenza a scomparire sul lungo periodo.
Per continuare la storia, il bello della biologia è che ci sono eccezioni, ed anche eccezioni delle eccezioni. Come mostrato, tra gli altri, da Gould, può capitare che, a causa d’improvvisi cambiamenti nell’ambiente, un tratto svantaggioso si trasformi in un tratto vantaggioso fornendo così un vantaggio a quella parte della popolazione che lo possedeva (e che, inizialmente, era svantaggiata). Un esempio per noi esseri umani è l’anemia falciforme. Si tratta di una malattia genetica (-dovuta ad una mutazione in un gene – essendo una malattia, si tratta di qualcosa di “svantaggioso” in condizioni “normali”) che colpisce i globuli rossi. Tuttavia, questa mutazione può portare un vantaggio agli individui affetti nelle zone colpite da malaria. Per più info, ecco il link all’articolo originale.

domenica 10 agosto 2014

Divagazioni estive 3. Produrre un "OGM" costa troppo?

 Si sente spesso dire che "produrre un OGM" è un processo troppo costoso.
 In realtà, bisogna distinguere tra:
  • la ricerca necessaria per scoprire il gene d'interesse (lunga e costosa)
  • il processo di "trasformazione genetica" (a basso costo)
  • i test necessari per poter commercializzare la nuova varietà (estremamente lunghi e costosi, alla portata delle sole multinazionali).

 La “tecnologia della transgenesi”, però, è alla portata di chiunque, non solo delle multinazionali. Il “costo” di produzione di un “OGM” è, in realtà, quasi irrisorio.
  All’inizio, alcune tecniche erano protette da brevetto (il che complica/va) effettivamente le cose.  Tuttavia
  1. diversi brevetti sono ormai in scadenza e 
  2. vari ricercatori hanno provato a sviluppare versioni open-source delle tecniche di transgenesi, ad esempio, il progetto pCambia (http://www.cambia.org/daisy/cambia/585).
Insomma, potenzialmente, non c’è nulla che impedisca alla gente di farsi gli “OGM” in garage!!
E anzi, è probabile che alla fine gli “OGM” verranno sdoganati proprio dal movimento dei maker.   Quello che serve è solo il “sapere come" farli (know-how).
Quando la gente inizierà davvero a produrli in garage si creerà un corto-circuito legislativo. E, come spesso avviene, la società civile avrà sorpassato la politica.
 Il problema è rappresentato, però, dai costi necessari per metterli in commercio. Esiste una regolamentazione estremamente opprimente (dovuta alle pressioni - e agli interessi - di aziende e movimenti contrari a questa tecnologia) che, di fatto, rappresenta una "barriera all'entrata" enorm per chiunque desiderasse entrare sul mercato di queste varietà. Come conseguenza, una legislazione che si vorrebbe "contro" le multinazionali, in realtà, consente (nel bene e nel male) solo a quest'ultime di poter mettere in commercio varietà transgeniche (mentre il "fare un OGM" può costare alcune decine/centinaia di euro al massimo). In pratica, milioni e milioni di dollari vengono spesi solo per poter dimostrare che il mais A (”OGM”) è davvero mais proprio come il mais B (”tradizionale”). Semplicemente assurdo. Mettere in commercio un medicinale contro il cancro è forse meno oneroso.
 Che sia tempo di cambiare le regole?

sabato 9 agosto 2014

Divagazioni estive 2: arte e vegetali



 Qual è il rapporto tra arte e piante? In effetti, come è stato spesso fatto notare (mi viene in mente, ad esempio, il botanico Francis Hallé, con il suo “Eloge de la plante”), noi umani tendiamo a relegare i vegetali a livello di mero paesaggio o scena, mentre sarà raro trovare una pianta, un albero ad esempio, a farla da protagonista in un’opera d’arte (forse bisogna aggiungere l'eccezione delle nature morte. In fondo, il fatto che vengano definite "morte" la dice lunga sul ruolo loro riservato). 
 Certo, gli animali sono molto più vicini a noi, e come tali sentiti anche psicologicamente. Per contestare questa affermazione, potrebbe venire in mente il genio di Leonardo, capace di rappresentare con botanico dettaglio il prato dove l’angelo dell’Annunciazione si inginocchia.                 
 Purtroppo, anche qui, le piante rappresentano più che altro il “tappeto” della vicenda raffigurata e, al di là di vistose margherite e simil-campanule, più che di vere specie vegetali sembra trattarsi di raffigurazioni floreali. Si tratterebbe cioè di un pastiche: i singoli elementi sono veri o verosimili (grazie agli studi di botanica di Leonardo), ma nell’insieme non è scontato affermare che quella che vediamo è una specie reale identificabile in maniera univoca,  e non piuttosto una specie immaginata o, forse più correttamente, idealizzata nei suoi tratti essenziali. 
 All’opposto, si può citare l’opera monumentale “The Temple of Flora” (ottocentesca) dove la fedeltà all’originale, anche nei colori, era spinta ai limiti dell’arte (e delle tecniche di stampa) disponibili all'epoca.  In effetti, si dice, l’opera costò un patrimonio (e la bancarotta) al suo committente, Robert John Thornton.

 Però, ecco, i vegetali, con le loro forme, simmetrie, e modalità di crescita modulare rappresentano comunque una fonte d’ispirazione artistica. Quindi, se cerchiamo le piante nell’arte, forse dovremmo cercare non tanto la raffigurazione esatta quanto piuttosto l’essenza, per così dire, “vegetale” e la sua impronta nell’opera. Anche nell’architettura. Come non pensare, allora, alla Sagrada Familia di Gaudì, con le sue colonne, capitelli, con tratti chiaramente vegetali? Su tutt’altra linea, ecco invece l’erbario immaginario (e immaginifico) di un Luigi Serafini. Ma saranno vegetali, o esseri pensanti sotto mentite spoglie?

 Non esistono però solo artisti attratti dalla botanica. Anche l’inverso è vero. Al John Innes Centre, i risultati delle ricerche volte alla comprensione della forma (e dello sviluppo della forma) negli organi vegetali, sono stati applicati ad un oggetto potenzialmente “artistico”, quale un vaso, anche grazie all’impiego della stampa 3D. E per finire, ecco un rapido video che mostra questo “vaso vivente”(molto "vegetale") durante il suo sviluppo.

mercoledì 6 agosto 2014

Divagazioni estive: selve, foreste e libri illustrati



 Leggendo qua e là, mi sono imbattuto in una interessante edizione: si tratta del “The New Sylva” di Gabriel Hemery (agronomo forestale) e Sarah Simblet (artista). L’idea è piuttosto originale. Si tratta, in pratica, di un “libro d’artista” avente come tema gli alberi. Le immagini sono realizzate a matita (quindi, niente colori, si direbbe).

 La cosa interessante è l’idea retrostante di creare un libro in continuità con il volume cui dichiaratamente si ispira: il “Sylva” di John Evelyn. Uno dei primi testi editi dalla neonata Royal Society (come “articolo” nel 1662, solo in seguito edito come “libro” vero e proprio). Un'opera che aveva l'ambizione di descrivere usi e proprietà delle essenze arboree presenti sul territorio britannico. 


  L’Inghilterra dell’epoca, dedita alla conquista dei mari, non poteva fare a meno di occuparsi al meglio della risorsa alla base di tale espansione: il legno con cui poter realizzare la flotta di Sua Maestà. Da qui l’interesse, anche e soprattutto storico, di questo volume, uno dei più antichi e completi testi di scienze forestali. Per chi non teme il linguaggio dal sapore vagamente “shakespeariano” dell’originale, è possibile scaricarlo gratuitamente dal sito di Project Gutenberg qui.

mercoledì 11 giugno 2014

Una pianta come lampada


A un anno dalla clamorosa campagna su Kickstarter per realizzare la pianta-lampadina, ecco il punto della situazione.
Il progetto per realizzare (e diffondere) una pianta bioluminescente sembra essere in dirittura d’arrivo. L’anno scorso, utilizzando una piattaforma di finanziamento aperta a chiunque lo desideri (la piattaforma web Kickstarter, appunto) un team legato alla Singularity University era riuscito ad assicurarsi i fondi necessari per il progetto (non senza polemiche).

In realtà, l’idea in sé non è nuova e il progetto si basa sostanzialmente su tecniche già note (pur con l'adozione di alcune tecnologie “d'avanguardia”).
L’idea è semplice: far produrre alla pianta (in questo caso, la pianta per così dire "star" dei laboratori di tutto il mondo, l’Arabidopsis thaliana. Per il futuro, il team ha in programma di passare alla rosa bioluminescente…), l’enzima luciferasi e il suo substrato, la luciferina, in modo da realizzare nelle piante lo stesso processo di emissione di luce che normalmente avviene nelle lucciole.

L’espressione di luciferasi in pianta è una tecnica ormai consolidata: ha quasi trent’anni. Come tecniche simili (tutte basate sul far esprimere ad un organismo qualcosa che si veda o si possa vedere – magari aggiungendo una particolare sostanza rivelatrice, come la luciferina per le piante che esprimono la luciferasi), viene normalmente utilizzata per studiare i geni. Infatti, diventa così possibile capire dove e quando (e magari, il come) quel gene d’interesse si esprime. In pratica, è un modo semplice ed elegante per vedere i geni in azione. E così, per distinguere i geni che vogliamo studiare da tutti gli altri – che non interessano – si fa in modo che “facciano luce“, letteralmente.

Tempo fa, un gruppo italiano (CRA per la floricoltura di Sanremo) aveva realizzato qualcosa di simile: fiori fluorescenti (che emettono luce se colpiti da luce UV). D’altronde, da diversi anni esiste in commercio anche il pesce zebra fluorescente, Glofish ® (quindi, non emette luce di per sé, ma si colora se colpito da luce UV).
Tuttavia, l’idea lanciata su Kickstarter è profondamente innovativa (e rivoluzionaria). Non tanto dal punto di vista scientifico, quanto per il suo impatto sulla società.

Scientificamente, il problema da affrontare era il seguente: come far esprimere molta (tanta) proteina GFP, in modo che la luce emessa possa essere almeno visibile da chi acquisterà la pianta? (Se non proprio utilizzarla come lampada…). Il costrutto genico che hanno inventato sembra essere adatto allo scopo. In futuro, chissà, questo potrebbe davvero rivelarsi come il primo passo per realizzare “alberi-lampioni” in grado di illuminare le nostre strade senza elettricità (e quindi, a impatto zero). Ma l’impatto sulla società è ancora più interessante.

In primo luogo, perché sono stati utilizzati strumenti “aziendali” innovativi. I fondi sono stati raccolti online, su Kickstarter (tecnicamente, l’obiettivo del progetto non dovrebbe essere tanto quello di fare profitti, quanto quello di diffondere la cultura scientifica associata con la creazione di piante luminose).
Per realizzare le varie parti del progetto, il team ha “fatto rete” con altre spin-off di Singularity University: Genome Compiler (software di bio-informatica nato per la biologia sintetica – è poi possibile ordinare i geni realizzati a tavolino) e Cambrian Genomics (che ha sviluppato un metodo innovativo per produrre lunghe sequenze di DNA).

Negli USA, la vendita dei semi ha ottenuto l’Ok del Dipartimento di Agricoltura. Nella produzione delle piante bio-luminescenti, infatti, non sarà utilizzato l’Agrobatterio per trasferire il gene della GFP alla pianta, ma il metodo bio-balistico (il DNA è caricato su sferette metalliche che vengono letteralmente sparate sui tessuti da trasformare). L’impiego di un metodo “fisico” di trasferimento di DNA (e non basato su di un patogeno potenziale, come l’Agrobatterio)

Soprattutto, chi ha finanziato il progetto riceverà i semi contenenti il gene per la GFP, e potrà far crescere a casa una pianta-lampadina. Si tratta, a tutti gli effetti, di qualcosa che in certi ambienti verrebbe classificato come un organismo geneticamente modificato. Eppure, moltissime persone sono state disposte a partecipare (finanziariamente) al progetto.
L’idea della pianta-lampadina si inserisce appieno nella filosofia dei maker: l’autofabbricazione di oggetti e processi d’avanguardia. In pratica, “biology for the people”, poiché il progetto è sostanzialmente open-source e non profit. Volendo, è anche possibile acquistare un kit (in questo caso, basato sull’Agrobatterio) con tutti i componenti per realizzare da sé la pianta luminosa.

Le persone avranno il pieno controllo delle conoscenze e del know-how dietro a questo progetto. Come potrebbe, un progetto di biologia molecolare, essere più democratico?

Forse si tratta di un nuovo inizio per le biotecnologie verdi. Staremo a vedere.

lunedì 28 aprile 2014

James Lovelock: beyond IPCC climate report


This month, two different (albeit related) news have been echoed by the Web and scientific journals.

The first news 
 The 13th of April, Working Group 3 from the IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) released a new report concerning “mitigation of climate change”. Somehow, the title summarizes at its best what is heavily shown in the attached pages: despite previous reports and international forums (including the Kyoto protocols), anthropogenic emissions of greenhouse gases have continuously increased in the time-lapse taken into account by the report (1970-2010). Moreover, it is shown that when you consider all CO2 emissions (cumulative) between 1750 and 2010, half of them occurred in the last 40 years, reaching a pick in 2010 (being only slightly affected by the world economic crisis in 2007/2008). 

 The report goes on with possible scenarios and trends on global temperatures (supposed in the range +3.7°C <-> + 4.8°C in 2100, assuming no efforts to reduce emissions). Rapid climate change seems almost inevitable; the point is not how to stop it, but how we can adapt to such effects. The report provides different pathways  to cut emissions and mitigate climate change. Several technical solutions are illustrated, spanning from CO2 capture to nuclear power or bioenergy. Some economists frankly noticed that, if IPCC suggestions have to be implemented at the political level, this will not be without effects on economical exchanges (and the current trends of market competition)[1]. The scientific community, by the voice of the journal Nature, simply titled “IPCC report under fire[2] where the absence of country-specific guidelines for lowering emissions was questioned. Therefore, the simple message that CO2 emissions should be reduced seems unsatisfactory because lacking of tangible and pragmatic ways of implementation. This is a classical problem for science when confronted with society.

The second news
 The second news is inspiring and comes “in resonance” with the IPCC and global change. 
 At the Science Museum in London, an exhibition about the life and work of James Lovelock opened this month. James Lovelock probably is one of the most eclectic scientists today (a “natural philosopher” of the XXth Century, much like Stephen Jay Gould or D’Arcy Thompson in other fields). Lovelock is well-known for the theory of Gaia (a name suggested to him by William Golding, yes, that William Golding), also known under the metaphor of the living Earth
 He first developed the theory while working at Nasa on the question of how to reveal the presence of life forms on Mars. This resulted in  the idea that life could be revealed by analyzing the planet atmosphere: if an atmospheric disequilibrium was found, that is the footprint of life at work. This is indeed the case with Earth, making our world a “living” planet. These reflections inspired the first version of the Gaia theory. As Lovelock says[3], the theory of the Earth as a living organism or, better, as self-regulated system, was challenged by scientists like Dawkins and Doolittle, with the argument that the unit of natural selection is the organism, not the biosphere. The new model was called “Daisy World”. Lovelock imagined a planet populated with “daisies” existing in two different colours: white or black. The planet would self-regulate its own temperature as white daisies will be the fittest in a hot climate, and the opposite for the black ones, in a cold climate. This model was pure abstraction. However, it revealed for the first time that a self-regulating planet was indeed possible (at least theoretically), and paved the way to find out real feed-back mechanisms of climate homeostasis on our planet.

 Lovelock has just published his new book: “A Rough Ride to the Future”[4], where the role of man in Gaia is positively re-evaluated, compared to his previous books. Probably, more than that, the book contains its legacy for this century. In a recent interview by Philip Ball in Nature[5], that I found inspiring, Lovelock is asked to explain his concept of “sustainable retreat” regarding climate change. He argues that lack of food during WWII almost led Britain to defeat and, mutatis mutandis, today’s agricultural supply is not in line with the needs of the world population[6]. Therefore, Lovelock was clearly pointing to agriculture at the heart of the sustainability problem.

CO2 emissions pie chart based on the IPCC report and on [2]


 This is interestingly matching with this resuming graph for the IPCC report[7], illustrating the percentage of direct CO2 emissions in 2010 for different sectors (indirect emissions account for 25% of the total):  agriculture (along with forestry and other land use) emitted 24% of total CO2. Industry was second for direct emissions, at 21%. Maybe we should start to solve the problem in the right  order, starting with A (A, as Agriculture), instead of C (C, as Climate) and follow Lovelock: “it is far better to think about how we can protect ourselves[8].







[1]                      Sylvestre Huet, ‘L’objectif des 2°C échauffe les esprits’, Libération, 15 April 14AD, p. 17.
[2]                      Quirin Schiermeier, ‘IPCC Report under Fire’, Nature, 508 (2014), 298–298 <http://dx.doi.org/10.1038/508298a>.
[3]                      James Lovelock, ‘Gaia: The Living Earth’, Nature, 426 (2003), 769–70 <http://dx.doi.org/10.1038/426769a>.
[4]                      Tim Lenton, ‘Earth Systems: No Place like Home’, Nature, 508 (2014), 41–42 <http://dx.doi.org/10.1038/508041a>.
[5]                      Philip Ball, ‘James Lovelock Reflects on Gaia’s Legacy’, Nature, 2014 <http://dx.doi.org/10.1038/nature.2014.15017>.
[6]                      Ball.
[7]                      Schiermeier.
[8]                      Ball.
Enrico Costanzo (2014). James Lovelock: beyond IPCC climate report De Causis Plantarum

LIBRI, LIBRI, LIBRI....